L'ALBUM
(recensione a cura di
Fabio Ciminiera - Jazz Convention)
Standhard... Rendere duri, difficili gli standard?... Silvia Donati &
Standhard 3io cercano una strada diversa nell'esplorazione del materiale
solitamente proposto da una formazione costituita da una cantante
accompagnata dal piano trio. Se si può essere tratti in inganno dalla
presenza di brani come Invitation o All Blues o ancora On green dolphin
street, che farebbero pensare al solito cimento, e dalle canzoni pop,
che uno potrebbe pensare rivisitate con swing e ironia accattivante...
bene siamo fuori strada. Il gruppo impegna le sue energie in una
operazione di scomposizione e di ripensamento del brano originale,
cercando attraverso nuovi ritmi, interpretazioni scardinanti, attraverso
l'ironia, sì, ma volgendosi verso quella graffiante, di rendere
personali e di proporre una nuova visione questi brani celeberrimi.
Il fatto sta come al solito nell'atteggiamento con cui ci si accoste e
rivolge agli standard: il lavoro di Silvia Donati e dei suoi musicisti
viene ad evidenziarsi sin dalla denominazione del trio (Standhard può
essere interpretata come una dichiarazione di intenti: non ci vogliamo
accomodare sulle facili, conosciute armonie e sui riscontri immediati
che potrebbe darci suonarli nel solito modo) e, se questo non dovesse
essere sufficiente, dalle prime note del disco: una stridente
introduzione di Invitation, uno dei classici più accattivanti, e più
eseguiti nel repertorio delle cantanti, sospesa tra gli effetti
elettronici e le note delicate, staccate, dal pianoforte, con la voce
che s fa sempre più aspra.
L'aspetto che in ogni operazione del genere diventa sostanzialmente
l'ostacolo più arduo è la capacità di condurre lo svolgimento del disco
con coerenza, convinzione e leggerezza, senza eccedere, cioè, nella foga
di perseguire il risultato che ci si è prefissi. Il disco risulta
sicuramente compatto, quasi non si notano le pause tra un brani e il
seguente, a dimostrazione dell'attenzione rivolta al concetto generale
del disco, e la tensione, la misura non viene meno neanche negli episodi
che convincono meno nel corso del lavoro. Il gruppo, in qualche caso,
richiama la tradizione, suoni e temi più usuali, ma è un appoggio che
non distoglie i nostri dalla direzione di marcia intrapresa: servono a
non estremizzare la ricerca e a dare respiro e contesto al disco.
Sarebbe senz'altro interessante vedere su un palco come il percorso che
si sviluppa nel disco viene interpretato dal vivo.
Singin' in the brain, altro riferimento, distorto, agli standard... si
comprende che la scelta di alcune soluzioni, la scelta dei suoni degli
effetti, gli accenti posti su alcune tensioni, siano frutto di
arrangiamento, di pensiero e non solo sedimento di esecuzioni successive
dal vivo. Soluzioni che in modo vario sono applicate nel corso dei
brani. Il gruppo, spesso, si concede episodi liberi, fughe estreme in
avanti che hanno riuscita differente a seconda dei brani: On Broadway e
Lonely Woman sono trattati dal gruppo in maniera libera, free, ma se nel
brano di Ornette Coleman questo lavoro giunge con naturalezza a dare il
senso della malinconia, a rendere l'atmosfera del brano, On Broadway,
probabilmente anche per il confronto con l'originale, perde la sua
fluidità, a favore di un ipotetico traffico metropolitano che potrebbe
rappresentare il caos newyorchese. In All Blues il gruppo si misura con
una esecuzione più ligia all'originale, anche se accompagnata da una
ritmica più sincopata.
La scelta infine di accostare tre brani provenienti dal mondo della
musica pop-rock, allarga ulteriormente lo spettro sonoro delle
derivazioni, delle matrici, dei ragionamenti. Lo sviluppo delle ritmiche
movimentate di Sign o' the times e Slave to the rhythm verso la
grammatica dello standard jazz è operazione che il gruppo non opera in
modo canonico: il brano di Prince viene privato della fluida linea
durante la strofa lasciata al solo lavoro della cantante con il gruppo a
lanciare fendenti più che accompagnare e viene swingata nel ritornello;
Slave to the rhythm viene interpretata facendo leva sugli accenti tesi
della strofa per liberarsi nell'interpretazione del ritornello e
dell'assolo di Alfonso Santimone; Village of the sun, di Frank Zappa,
rappresenta, per alcuni versi, il momento più disteso e sereno di Singin
in the brain, anche se, come per tutte le tracce del lavoro, non mancano
frasi, ricami, ricerca di sonorità che divergono e sorprendono.
Da sottolineare la disposizione a giocare con i testi e creare ulteriori
temi da sviluppare: il blues, in dialetto, di Blusgat, la prova offerta
con Peyote che trae il testo da una poesia di Gregory Corso, musicata da
Silvia Donati, l'introduzione di On green dolphin street con il testo
cantato in portoghese. Will be, infine, è una canzone introspettiva e
lirica, condotta sui silenzi e sulle pause, in un gioco di sottrazioni.
Elementi importanti e sviluppati nel corso di Singin in the brain sono i
suoni e la tensione emotiva. Il suono è caldo ma non accattivante,
partecipe ma non ruffiano: a partire dalla voce di Silvia Donati, il
suono del gruppo è, di volta in volta, graffiante in alcuni tratti,
sopra le righe nei momenti più aperti e liberi del disco, calibrato e
misurato in Sign o'the Times, Village of the sun e All Blues, forte ed
espressivo in Slave to the rhythm; il gruppo rischia, prende alcune
curve un po' larghe, ma il punto di riferimento principale della
formazione è quello di tentare una performance particolare, personale,
creando suoni, impasti, effetti elettronici che diano una risposta a
questo impulso. Impulso che viene anche affrontato cercando una sorta di
trance espressiva, che cerca di avvolgere con il suono, con la voce,
l'ascoltatore, indugiando ostinatamente su alcune frasi, crescendo di
intensità e danno libero sfogo alle personalità musicali dei quattro. |